Pietro Ichino: «Bisogna rompere i tabù e introdurre anche in Italia il salario minimo»

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 16 Nov 2011 in Interviste

Come contrastare il lavoro sottopagato o gratuito, i «free jobs» (da cui anche il movimento twitter #nofreejobs) proposti in massima parte ai giovani, in totale spregio dell'articolo 36 della nostra Costituzione? La Repubblica degli Stagisti l'ha chiesto a Pietro Ichino, giuslavorista e senatore PD nonché promotore da anni di un rinnovamento del diritto del lavoro italiano denominato «progetto flexsecurity». Il disegno di legge mira a sfoltire la giungla dei troppi contratti precari garantendo a ciascun nuovo assunto una forma contrattuale stabile e a tempo indeterminato, rinunciando alle "vecchie" garanzie di illicenziabilità a fronte però di una stabilità immediata e a un congruo risarcimento economico in caso di risoluzione del contratto. Di Ichino è appena uscito nelle librerie l'ultimo libro, Inchiesta sul lavoro (Mondadori), sottotitolo «Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma». 

stageProfessore, come mai secondo lei l'Italia è uno dei pochi Paesi europei a non essersi dotato di un salario minimo? Due terzi dei Paesi UE ne hanno uno, noi siamo nel terzo che invece non ce l'ha.
Perché ha prevalso l’orientamento giurisprudenziale tendente ad attribuire efficacia erga omnes ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali. Non ci si è resi conto, però, che la funzione del minimum wage è diversa da quella dei minimi tabellari. Mentre questi costituiscono degli standard sindacali di categoria, il salario minimo costituisce un minimo universale, al di sotto del quale non si può andare neanche nei rapporti di lavoro marginali, atipici, occasionali, o comunque esclusi dal campo di applicazione dei contratti collettivi.
Salario minimo e reddito minimo sono due cose diverse: la prima si riferisce alla soglia di retribuzione sotto la quale nessun datore di lavoro per nessun mestiere può scendere. La seconda invece implica uno stipendio garantito dallo Stato a tutti i cittadini, per far sì che nessuno rimanga completamente scoperto. Perché sostenere un salario minimo e non il reddito minimo?
Appunto, perché sono due cose diverse. La prima non costa nulla all’erario: è soltanto uno standard inderogabile imposto a tutti i rapporti di lavoro che si costituiscono, ma operante soltanto se e dove essi si costituiscono. La seconda implica una spesa ingente, che le finanze pubbliche possono non essere in grado di permettersi; inoltre perché questa sia praticabile, occorre che si attivi in modo efficace la capacità degli erogatori di controllare i requisiti, per impedire che il reddito garantito produca una riduzione della propensione delle persone a entrare nel mercato del lavoro.
In Inghilterra il minimum wage ammonta a 6,08 sterline, poco meno di sette euro l’ora; in Francia lo smic a 9 euro netti. Negli Stati Uniti è in vigore uno standard orario di 7,25 dollari, al cambio attuale pari a 5,3 euro. Quali sono gli elementi da considerare nel fissare il salario minimo di un Paese?
Il salario minimo, se non vuole creare disoccupazione o lavoro nero, non deve tendere a forzare verso l’alto i livelli retributivi, ma soltanto a correggere le distorsioni marginali, dovute per lo più a fenomeni di «monopsonio dinamico», cioè difetti di informazione sulle occasioni di lavoro disponibili, difficoltà di accesso ai servizi di formazione necessari, difetti di mobilità geografica.
Parlando concretamente di soldi: secondo lei a quanto dovrebbe ammontare il salario minimo in Italia?

In Italia, se il salario minimo fosse destinato a essere lo stesso su tutto il territorio nazionale, esso dovrebbe essere più vicino a quello statunitense che a quello francese. In ogni caso dovrebbe essere espresso in termini di retribuzione oraria.
stageI sindacati italiani sono tendenzialmente contrari all'adozione di questa misura, perché essa ridurrebbe il potere che da decenni è dato loro dalla stipulazione dei contratti nazionali di categoria?
I sindacati temono che il salario minimo, dovendo essere determinato secondo i criteri di cui si è detto e quindi dovendo collocarsi a un livello inferiore rispetto ai minimi tabellari attuali, possa in qualche modo condizionare al ribasso anche la contrattazione nazionale di settore.
Per la peculiarità italiana, si potrebbe pensare a un salario minimo che coprisse solo tutti i rapporti individuali non riconducibili a contratti nazionali?
Credo che sia proprio questa la soluzione a cui pensano tutti coloro che stanno lavorando a questa nuova misura di politica del lavoro.
Un altro problema è che vi sono mestieri per i quali il lavoro non può essere conteggiato a ore, bensì a prestazione: si pensi sopratutto ai freelance professionisti, come un giornalista che scrive un articolo. In questi casi come si potrebbe intervenire? Sarebbe pensabile un salario minimo di prestazione accanto a un salario minimo orario?
In alcuni ordinamenti la norma istitutiva del salario minimo precisa che, in questi casi, si deve fare riferimento al tempo ordinariamente necessario per la produzione della singola prestazione non divisibile e non misurabile in termini di tempo.
Considerando però che in Italia la situazione occupazionale da un lato e il costo della vita dall'altro sono molto diversi da territorio a territorio, e soprattutto da nord a sud, sarebbe pensabile un salario minimo differenziato?
Logica vuole che il salario minimo garantisca un potere d’acquisto reale e non un livello nominale di retribuzione. Questo imporrebbe che il salario minimo fosse determinato anche in considerazione del costo della vita rilevato al livello provinciale o regionale. Ne conseguirebbe una possibile variazione del salario minimo nella misura del 20 o anche 25 per cento tra le regioni più ricche e quelle più povere del nostro Paese. So che questo discorso è tabù per la nostra cultura sindacale; ma a furia di tabù stiamo condannando il nostro Mezzogiorno al lavoro nero e al sottosviluppo.
Un salario minimo di mille euro netti per un lavoro full time era tra le proposte contenute nel programma del Partito democratico alle elezioni politiche del 2008. Al punto 6, «Stato sociale: più eguaglianza e più sostegno alla famiglia, per crescere meglio», si leggeva la promessa di una «sperimentazione di un compenso minimo legale, 1000-1100 euro netti mensili, per i precari». Quale pensa che sia al momento la posizione del PD al riguardo?
Non mi risulta che la posizione ufficiale del PD su questo punto sia mai mutata.
Introdurre un salario minimo sarebbe utile anche senza l'approvazione in contemporanea di una riforma del diritto del lavoro nel senso del contratto unico, o le due misure sono inscindibili?
Più che di «contratto unico» io preferisco parlare di «diritto del lavoro unico». La risposta alla domanda, comunque, è sì: il salario minimo può e deve costituire uno degli strumenti di protezione universale, nel momento in cui si decide di voltar pagina rispetto alla situazione attuale di apartheid nel mercato del lavoro, fra protetti e non protetti. Questo è anche l’intendimento del mio progetto di riunificazione del diritto del lavoro, contenuto nel disegno di legge n. 1873/2009, dove infatti è prevista anche l’introduzione del salario minimo.

Intervista di Eleonora Voltolina

Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
- L'apartheid del lavoro italiano al vaglio della Commissione europea: le ragioni di una denuncia
- In Italia si guadagna troppo poco: per rendere dignitose le retribuzioni dei giovani bisogna passare dal «minimo sindacale» al «salario minimo»

E anche:
- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato
- In tutta Italia manifestazioni a difesa della Costituzione. Senza dimenticare l'articolo 36, che sancisce il diritto a retribuzioni dignitose

Community