«Perché tanti insegnanti accettano di lavorare gratis nella scuola? Per il punteggio»

Marianna Lepore

Marianna Lepore

Scritto il 08 Ago 2017 in Approfondimenti

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Insegnanti che per un intero anno scolastico vanno a scuola, svolgono le loro lezioni ma alla fine del mese non ricevono alcun bonifico. O, peggio, dopo averlo ricevuto sono costretti a prelevare la somma e a ridarla in contanti negli istituti privati in cui hanno svolto le lezioni.

Il malcostume delle false buste paga non sembra fermarsi.
Continua a verificarsi, soprattutto al Sud, nelle scuole primarie e in particolare in quelle confessionali. «Al nord pagano, di meno, ma pagano; e alla fine si prende uno stipendio, magari facendo 36 ore invece delle 24 previste. Però lì sono più frequenti anomalie nel contesto del titolo di studio» spiega Paolo Latella, membro del direttivo nazionale Unicobas e segretario regionale per la Lombardia alla Repubblica degli Stagisti. «A Bologna, per esempio, qualche anno fa nelle scuole confessionali c’erano persone che non avevano titolo per insegnare e invece gestivano le classi delle scuole primarie» aggiunge il segretario regionale, che nel 2014 aveva pubblicato un dossier, diventato poi un libro, in cui denunciava apertamente questo problema.

Il suo racconto, però, non si ferma qui: come dimenticare lo scandalo a Lesina in Puglia, dove una vigilessa stampava titoli e lauree false? Titoli fasulli grazie ai quali «gente con la terza media si è trovata a insegnare in tutta Italia». E non conoscendo la situazione drammatica a cui sono sottoposti questi insegnanti si è poi lamentata per l’assenza di guadagno. «È il caso di una signora che in precedenza faceva la donna delle pulizie
e si è lamentata perché per pulire guadagnava 15 euro l’ora mentre presentando il titolo da laureata in una scuola paritaria alla fine riceveva solo il punteggio»

Ma perché in tanti accettano di lavorare gratis e sottostare alle minacce dei propri dirigenti? «Il problema è sempre il punteggio.
A breve dovrebbe partire il nuovo sistema di reclutamento ma per le supplenze si farà comunque riferimento alle graduatorie di istituto e lì il punteggio serve ancora» spiega Gianluca Vacca, deputato del Movimento 5 Stelle, membro alla Camera dei deputati della VII commissione, Cultura scienza e istruzione.  «Non solo, il punteggio delle paritarie è lo stesso per la scuola pubblica. Ecco perché come M5S abbiamo proprio qualche settimana fa votato il nostro programma scuola per le prossime elezioni e uno dei punti messi al voto è stata la revisione della parità scolastica. Bisognerà chiarire se
non convenga eliminare o ridurre il punteggio dato a chi insegna in queste scuole».

Si insegna gratis, quindi, per fare punteggio, aspirare poi a qualche supplenza in scuole statali ed entrare nel giro degli incarichi. C’è però una novità, introdotta dalla legge 107, che non è molto conosciuta. «La Buona sc
uola ha in parte bloccato tutto questo. Se, infatti, entro tre anni di supplenze in scuole pubbliche con incarichi annuali non riesci a vincere il concorso ordinario, allora non puoi più insegnare nella scuola. Quindi resterai in terza fascia per le supplenze, ma non otterrai più l’incarico annuale» spiega Latella: «Già dal 2019 ci saranno i primi verdetti, e gente che ha insegnato per anni come precario nel pubblico o nel privato rimarrà senza lavoro».

Il sindacalista spiega meglio la questione: «Fatta la riforma, pendevano tantissimi ricorsi al Tar o al giudice del lavoro perché i nuovi docenti di ruolo chiedevano la ricostruzione economica per tutti gli anni di precariato. C’era stata, infatti, una sentenza della Corte europea che diceva che l’Italia era in difetto perché faceva lavorare illegalmente da molti anni i precari della scuola. E allora il ministero, per salvaguardare se stesso, ha messo questo vincolo di tre anni per bloccare i ricorsi. Non tutti però sono
informati sul tema e continuano a fare le supplentine».

Resta da chiedersi se esista un modo per eliminare questa prassi delle supplenze non retribuite. Secondo Vacca e Latella l’unica soluzione è quella di verificare puntualmente i
pagamenti. Non solo, però, sui conti correnti dei docenti, bensì «facendo un controllo incrociato tra i dipendenti della scuola e il bilancio dell’azienda che fornisce il servizio di istruzione. Una scuola paritaria ha dei bilanci» spiega il sindacalista Unicobas «e quei bilanci devono essere pubblici. A quel punto basta fare il controllo sulle entrate delle rette degli studenti e le uscite per pagare gli insegnanti. E quei versamenti devono sì apparire sui conti correnti dei docenti ma non deve esserci un prelievo per la stessa cifra, come ora accade. Il gioco ora è questo: firmano lettere di licenziamento senza data, gli fanno il versamento e poi le scuole pretendono di riavere in contanti la stessa cifra».

Certo, fare i controlli non è facile anche perché «dove ci sono finanziamenti pubblici e scuole che fanno business, dietro c’è tutta la malavita organizzata. E ci sono ispettori che in alcune situazioni territoriali hanno anche paura di andare a fare i controlli. Per far capire il business che c’è dietro, basta questo dato: solo a Caserta ci sono 404 scuole paritarie a fronte di 210 pubbliche».

Un'altra difficoltà è che il dato completo dei docenti non retribuiti nelle scuole paritarie non esiste.
«La stima è difficile» dice Vacca: «Non c’è una contezza esatta dei numeri. L’anno scorso ho raccolto le segnalazioni di abusi in Abruzzo e molti docenti mi hanno raccontato dei contratti falsi, delle ore inferiori dichiarate rispetto a quelle fatte, dell’assenza di pagamento. In totale avrò ricevuto una 40ina di segnalazioni. Ma per avere un numero esatto probabilmente bisognerà aspettare i due anni di piena operatività della legge».

Il ministero della pubblica istruzione non ha un dato più recente di quello legato al report delle ispezioni svolte dal giugno 2016, dove peraltro non si fa menzione di eventuali problemi nei pagamenti. Dopo quella data nessun nuovo monitoraggio. La Repubblica degli Stagisti ha provato a reperire questi dati contattando diverse direzioni territoriali del lavoro, purtroppo senza successo. Resta quindi sullo sfondo una domanda: come sia possibile arginare il fenomeno e riportare tutto nella legalità se non sono conosciuti nemmeno i numeri del problema.

Marianna Lepore

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